SPAZIO VITALE – “SEMAFORO GIALLO”

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA 61ª GIORNATA MONDIALE
DI PREGHIERA PER LE VOCAZIONI

[21 aprile 2024]

Chiamati a seminare la speranza e a costruire la pace

Cari fratelli e sorelle!

La Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni ci invita, ogni anno, a considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita. Ascoltare la chiamata divina, lungi dall’essere un dovere imposto dall’esterno, magari in nome di un’ideale religioso; è invece il modo più sicuro che abbiamo di alimentare il desiderio di felicità che ci portiamo dentro: la nostra vita si realizza e si compie quando scopriamo chi siamo, quali sono le nostre qualità, in quale campo possiamo metterle a frutto, quale strada possiamo percorrere per diventare segno e strumento di amore, di accoglienza, di bellezza e di pace, nei contesti in cui viviamo.

Così, questa Giornata è sempre una bella occasione per ricordare con gratitudine davanti al Signore l’impegno fedele, quotidiano e spesso nascosto di coloro che hanno abbracciato una chiamata che coinvolge tutta la loro vita. Penso alle mamme e ai papà che non guardano anzitutto a sé stessi e non seguono la corrente di uno stile superficiale, ma impostano la loro esistenza sulla cura delle relazioni, con amore e gratuità, aprendosi al dono della vita e ponendosi al servizio dei figli e della loro crescita. Penso a quanti svolgono con dedizione e spirito di collaborazione il proprio lavoro; a coloro che si impegnano, in diversi campi e modi, per costruire un mondo più giusto, un’economia più solidale, una politica più equa, una società più umana: a tutti gli uomini e le donne di buona volontà che si spendono per il bene comune. Penso alle persone consacrate, che offrono la propria esistenza al Signore nel silenzio della preghiera come nell’azione apostolica, talvolta in luoghi di frontiera e senza risparmiare energie, portando avanti con creatività il loro carisma e mettendolo a disposizione di coloro che incontrano. E penso a coloro che hanno accolto la chiamata al sacerdozio ordinato e si dedicano all’annuncio del Vangelo e spezzano la propria vita, insieme al Pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio.

Ai giovani, specialmente a quanti si sentono lontani o nutrono diffidenza verso la Chiesa, vorrei dire: lasciatevi affascinare da Gesù, rivolgetegli le vostre domande importanti, attraverso le pagine del Vangelo, lasciatevi inquietare dalla sua presenza che sempre ci mette beneficamente in crisi. Egli rispetta più di ogni altro la nostra libertà, non si impone ma si propone: lasciategli spazio e troverete la vostra felicità nel seguirlo e, se ve lo chiederà, nel donarvi completamente a Lui.

Un popolo in cammino

La polifonia dei carismi e delle vocazioni, che la Comunità cristiana riconosce e accompagna, ci aiuta a comprendere pienamente la nostra identità di cristiani: come popolo di Dio in cammino per le strade del mondo, animati dallo Spirito Santo e inseriti come pietre vive nel Corpo di Cristo, ciascuno di noi si scopre membro di una grande famiglia, figlio del Padre e fratello e sorella dei suoi simili. Non siamo isole chiuse in sé stesse, ma siamo parti del tutto. Perciò, la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni porta impresso il timbro della sinodalità: molti sono i carismi e siamo chiamati ad ascoltarci reciprocamente e a camminare insieme per scoprirli e per discernere a che cosa lo Spirito ci chiama per il bene di tutti.

Nel presente momento storico, poi, il cammino comune ci conduce verso l’Anno Giubilare del 2025. Camminiamo come pellegrini di speranza verso l’Anno Santo, perché nella riscoperta della propria vocazione e mettendo in relazione i diversi doni dello Spirito, possiamo essere nel mondo portatori e testimoni del sogno di Gesù: formare una sola famiglia, unita nell’amore di Dio e stretta nel vincolo della carità, della condivisione e della fraternità.

Questa Giornata è dedicata, in particolare, alla preghiera per invocare dal Padre il dono di sante vocazioni per l’edificazione del suo Regno: «Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (Lc 10,2). E la preghiera – lo sappiamo – è fatta più di ascolto che di parole rivolte a Dio. Il Signore parla al nostro cuore e vuole trovarlo aperto, sincero e generoso. La sua Parola si è fatta carne in Gesù Cristo, il quale ci rivela e ci comunica tutta la volontà del Padre. In quest’anno 2024, dedicato proprio alla preghiera in preparazione al Giubileo, siamo chiamati a riscoprire il dono inestimabile di poter dialogare con il Signore, da cuore a cuore, diventando così pellegrini di speranza, perché «la preghiera è la prima forza della speranza. Tu preghi e la speranza cresce, va avanti. Io direi che la preghiera apre la porta alla speranza. La speranza c’è, ma con la mia preghiera apro la porta» (Catechesi, 20 maggio 2020).

Pellegrini di speranza e costruttori di pace

Ma cosa vuol dire essere pellegrini? Chi intraprende un pellegrinaggio cerca anzitutto di avere chiara la meta, e la porta sempre nel cuore e nella mente. Allo stesso tempo, però, per raggiungere quel traguardo, occorre concentrarsi sul passo presente, per affrontare il quale bisogna essere leggeri, spogliarsi dei pesi inutili, portare con sé l’essenziale e lottare ogni giorno perché la stanchezza, la paura, l’incertezza e le oscurità non blocchino il cammino intrapreso. Così, essere pellegrini significa ripartire ogni giorno, ricominciare sempre, ritrovare l’entusiasmo e la forza di percorrere le varie tappe del percorso che, nonostante le fatiche e le difficoltà, sempre aprono davanti a noi orizzonti nuovi e panorami sconosciuti.

Il senso del pellegrinaggio cristiano è proprio questo: siamo posti in cammino alla scoperta dell’amore di Dio e, nello stesso tempo, alla scoperta di noi stessi, attraverso un viaggio interiore ma sempre stimolato dalla molteplicità delle relazioni. Dunque, pellegrini perché chiamati: chiamati ad amare Dio e ad amarci gli uni gli altri. Così, il nostro camminare su questa terra non si risolve mai in un affaticarsi senza scopo o in un vagare senza meta; al contrario, ogni giorno, rispondendo alla nostra chiamata, cerchiamo di fare i passi possibili verso un mondo nuovo, dove si viva in pace, nella giustizia e nell’amore. Siamo pellegrini di speranza perché tendiamo verso un futuro migliore e ci impegniamo a costruirlo lungo il cammino.

Questo è, alla fine, lo scopo di ogni vocazione: diventare uomini e donne di speranza. Come singoli e come comunità, nella varietà dei carismi e dei ministeri, siamo tutti chiamati a “dare corpo e cuore” alla speranza del Vangelo in un mondo segnato da sfide epocali: l’avanzare minaccioso di una terza guerra mondiale a pezzi; le folle di migranti che fuggono dalla loro terra alla ricerca di un futuro migliore; il costante aumento dei poveri; il pericolo di compromettere in modo irreversibile la salute del nostro pianeta. E a tutto ciò si aggiungono le difficoltà che incontriamo quotidianamente e che, a volte, rischiano di gettarci nella rassegnazione o nel disfattismo.

In questo nostro tempo, allora, è decisivo per noi cristiani coltivare uno sguardo pieno di speranza, per poter lavorare con frutto, rispondendo alla vocazione che ci è stata affidata, al servizio del Regno di Dio, Regno di amore, di giustizia e di pace. Questa speranza – ci assicura San Paolo – «non delude» (Rm 5,5), perché si tratta della promessa che il Signore Gesù ci ha fatto di restare sempre con noi e di coinvolgerci nell’opera di redenzione che Egli vuole compiere nel cuore di ogni persona e nel “cuore” del creato. Tale speranza trova il suo centro propulsore nella Risurrezione di Cristo, che «contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali. È vero che molte volte sembra che Dio non esista: vediamo ingiustizie, cattiverie, indifferenze e crudeltà che non diminuiscono. Però è altrettanto certo che nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 276). Ancora l’apostolo Paolo afferma che «nella speranza» noi «siamo stati salvati» (Rm 8,24). La redenzione realizzata nella Pasqua dona la speranza, una speranza certa, affidabile, con la quale possiamo affrontare le sfide del presente.

Essere pellegrini di speranza e costruttori di pace, allora, significa fondare la propria esistenza sulla roccia della risurrezione di Cristo, sapendo che ogni nostro impegno, nella vocazione che abbiamo abbracciato e che portiamo avanti, non cade nel vuoto. Nonostante fallimenti e battute d’arresto, il bene che seminiamo cresce in modo silenzioso e niente può separarci dalla meta ultima: l’incontro con Cristo e la gioia di vivere nella fraternità tra di noi per l’eternità. Questa chiamata finale dobbiamo anticiparla ogni giorno: la relazione d’amore con Dio e con i fratelli e le sorelle inizia fin d’ora a realizzare il sogno di Dio, il sogno dell’unità, della pace e della fraternità. Nessuno si senta escluso da questa chiamata! Ciascuno di noi, nel suo piccolo, nel suo stato di vita può essere, con l’aiuto dello Spirito Santo, seminatore di speranza e di pace.

Il coraggio di mettersi in gioco

Per tutto questo dico, ancora una volta, come durante la Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona: “Rise up! – Alzatevi!”. Svegliamoci dal sonno, usciamo dall’indifferenza, apriamo le sbarre della prigione in cui a volte ci siamo rinchiusi, perché ciascuno di noi possa scoprire la propria vocazione nella Chiesa e nel mondo e diventare pellegrino di speranza e artefice di pace! Appassioniamoci alla vita e impegniamoci nella cura amorevole di coloro che ci stanno accanto e dell’ambiente che abitiamo. Ve lo ripeto: abbiate il coraggio di mettervi in gioco! Don Oreste Benzi, un infaticabile apostolo della carità, sempre dalla parte degli ultimi e degli indifesi, ripeteva che nessuno è così povero da non aver qualcosa da dare, e nessuno è così ricco da non aver bisogno di ricevere qualcosa.

Alziamoci, dunque, e mettiamoci in cammino come pellegrini di speranza, perché, come Maria fece con Santa Elisabetta, anche noi possiamo portare annunci di gioia, generare vita nuova ed essere artigiani di fraternità e di pace.

Roma, San Giovanni in Laterano, 21 aprile 2024, IV Domenica di Pasqua.

FRANCESCO

𝐈𝐥 𝐜𝐚𝐫𝐝𝐢𝐧𝐚𝐥𝐞 𝐘𝐨𝐮: 𝐯𝐚𝐥𝐞 𝐚𝐧𝐜𝐨𝐫𝐚 𝐥𝐚 𝐩𝐞𝐧𝐚 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 Preti, 𝐬𝐢𝐚𝐦𝐨 𝐜𝐡𝐢𝐚𝐦𝐚𝐭𝐢 𝐚 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐟𝐞𝐥𝐢𝐜𝐢. In vista della Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni della prossima domenica 21 aprile, Andrea Monda, direttore de L’Osservatore Romano ha posto alcune domande al cardinale prefetto del Dicastero per il Clero Lazzaro You Heung-sik: “La vocazione è essenzialmente la chiamata a essere felici, a prendere in mano la propria vita, per realizzarla pienamente e non sprecarla”.Continua a leggere:https://www.vaticannews.va/…/cardinale-you-prefetto…

#FromTouristToPilgrim
Alessandro Vella del reparto di Antichità Cristiane dei Musei Vaticani ci accompagna in questo episodio alla riscoperta del Battistero Costantiniano (o Lateranense) , chiamato anche San Giovanni in Fonte o San Giovanni in Onda. Costruito con materiali antichi non oltre l’epoca di Sisto III (432-440), la sua pianta ottagonale divenne modello per molti battisteri in tutto l’Occidente. Nella tradizione l’ottagono richiama l’ottavo giorno, simbolo del Cristo risorto. Con il battesimo, infatti, si partecipa già a questo giorno senza tramonto. #podcast
🎧 Ascolta 👉🏻 https://shorturl.at/iBPX9

Papa Francesco: Urbi et Orbi, “non lasciamo che venti di guerra sempre più forti spirino sull’Europa e sul Mediterraneo”

31 Marzo 2024 @ 12:14 “La guerra è sempre un’assurdità e una sconfitta! Non lasciamo che venti di guerra sempre più forti spirino sull’Europa e sul Mediterraneo. Non si ceda alla logica delle armi e del riarmo”. Lo chiede il Papa, nel messaggio “Urbi et Orbi” di Pasqua, in cui ribadisce che ”la pace non si costruisce mai con le armi, ma tendendo le mani e aprendo i cuori”. “Non dimentichiamoci della Siria, che da quattordici anni patisce le conseguenze di una guerra lunga e devastante”, l’appello del Papa: “Tantissimi  morti, persone scomparse, tanta povertà e distruzione aspettano risposte da parte di tutti, anche dalla comunità internazionale”. Poi lo sguardo del Papa va al Libano, “da tempo interessato da un blocco istituzionale e da una profonda crisi economica e sociale, aggravate ora dalle ostilità alla frontiera con Israele”: “Il Risorto conforti l’amato popolo libanese e sostenga tutto il Paese nella sua vocazione ad essere una terra di incontro, convivenza e pluralismo”. Un pensiero particolare, inoltre, alla Regione dei Balcani Occidentali, “dove si stanno compiendo passi significativi verso l’integrazione nel progetto europeo: le differenze etniche, culturali e confessionali non siano causa di divisione, ma diventino fonte di ricchezza per tutta l’Europa e per il mondo intero”. “Parimenti incoraggio i colloqui tra l’Armenia e l’Azerbaigian, perché, con il sostegno della comunità internazionale, possano proseguire il dialogo, soccorrere gli sfollati, rispettare i luoghi di culto delle diverse confessioni religiose e arrivare al più presto ad un accordo di pace che sia definitivo”, prosegue Francesco, che invoca “una via di speranza alle persone che in altre parti del mondo patiscono violenze, conflitti, insicurezza alimentare, come pure gli effetti dei cambiamenti climatici. Doni conforto alle vittime di ogni forma di terrorismo. Preghiamo per quanti hanno perso la vita e imploriamo il pentimento e la conversione degli autori di tali crimini”. “Il Risorto assista il popolo haitiano, affinché cessino quanto prima le violenze che lacerano e insanguinano il Paese ed esso possa progredire nel cammino della democrazia e della fraternità”, l’altro appello del Papa: “Dia conforto ai Rohingya, afflitti da una grave crisi umanitaria, e apra la strada della riconciliazione in Myanmar lacerato da anni di conflitti interni, affinché si abbandoni definitivamente ogni logica di violenza. Apra vie di pace nel continente africano, specialmente per le popolazioni provate in Sudan e nell’intera regione del Sahel, nel Corno d’Africa, nella Regione del Kivu nella Repubblica Democratica del Congo e nella Provincia di Capo Delgado in Mozambico, e faccia cessare la prolungata situazione di siccità che interessa vaste aree e provoca carestia e fame”.

Il dono delle lacrime per chi è lontano

Le parole di Francesco nella Messa del Crisma e la testimonianza dei cristiani

Andrea Tornielli

«Il Signore non chiede giudizi sprezzanti su chi non crede, ma amore e lacrime per chi è lontano». Papa Francesco dà inizio ai riti della Settimana Santa presiedendo la Messa del Crisma nella Basilica di San Pietro e pronuncia un’omelia sulle lacrime. A partire da quel “pianse amaramente” dell’apostolo Pietro, che dopo aver rinnegato per tre volte il Maestro nel cortile della casa dei sommi sacerdoti, incrocia per qualche istante lo sguardo misericordioso di Gesù in catene e di fronte all’abbraccio del perdono riconosce il suo peccato. Francesco parla ai fratelli sacerdoti, nella celebrazione dedicata in modo speciale a loro. Ma le sue parole possono allargarsi e avvolgere tutti noi.

Di fronte alle situazioni della vita, alle posizioni di chi non crede, di chi polemizza con noi, ma anche di fronte alle diverse sensibilità dei fratelli nella fede, quante volte dal nostro cuore sgorgano giudizi sprezzanti, ultimativi. Talvolta giudizi di scherno, non così dissimili da quelli fatti risuonare ai piedi della croce. Basta guardare innanzitutto “dentro casa” per rendersi conto di questo rischio. Basta guadare anche soltanto distrattamente il mondo dei social media e dei blog che si dicono cristiani per rendersi conto di quale contro-testimonianza evangelica passi attraverso l’atteggiamento di chi soffia sulla divisione, sulla contrapposizione, sul ridicolizzare chi ha come unica colpa quella di pensarla diversamente. Allargando lo sguardo, come non pensare all’oceano di odio che si scatena e si alimenta con le guerre, il terrorismo e la violenza che continuano a mietere vittime innocenti.

I cristiani sono seguaci di un Dio fatto Uomo che ha chiesto di amare anche i nemici. Un Dio che non ha bisogno dei nostri pregiudizi e giudizi sprezzanti sugli altri, ma che si manifesta abbracciandoci quando siamo capaci di piangere e di amare, quando ci lasciamo trafiggere alle sofferenza degli altri uscendo dalle bolle dell’indifferenza, quando amiamo chi è lontano e preghiamo per lui, quando – invece di recriminare – versiamo lacrime per chi è fuori da quello che noi crediamo essere il recinto dei giusti, dei salvati, dei bravi, di coloro che sono “a posto”, di quelli che credono di sapere già tutto e perciò non attendono più nulla.

«Le situazioni difficili che vediamo e viviamo, la mancanza di fede, le sofferenze che tocchiamo – ha detto ancora Francesco ai sacerdoti – a contatto con un cuore compunto non suscitano la risolutezza nella polemica, ma la perseveranza nella misericordia. Quanto abbiamo bisogno di essere liberi da durezze e recriminazioni, da egoismi e ambizioni, da rigidità e insoddisfazioni, per affidarci e affidare a Dio, trovando in Lui una pace che salva da ogni tempesta! Adoriamo, intercediamo e piangiamo per gli altri: permetteremo al Signore di compiere meraviglie». Alla vigilia del riaccadere del sacrificio del Golgota, i cristiani, peccatori perdonati, imparano dalle lacrime di Pietro a riconoscersi tali. E aprendosi all’amore gratuito e incondizionato del Crocifisso imparano a volersi bene e ad essere così testimoni di misericordia in un mondo che non perdona; testimoni di unità in un mondo di divisione; testimoni di pace in un mondo dove sembrano prevalere la violenza e la guerra. Imparano ad essere testimoni di una speranza che non è fondata sulle loro capacità e sulla loro bravura, ma sulla certezza di ciò che avvenne nella notte di Pasqua in quel sepolcro di Gerusalemme.

Il Papa lava i piedi a 12 detenute di diverse religioni e nazionalità: “Dio perdona tutto”

Francesco celebra la Messa in Coena Domini del Giovedì Santo a Rebibbia femminile, davanti a circa 200 recluse delle varie sezioni del penitenziario, tra cui una mamma col figlio di 3 anni. Diverse età, provenienze e confessioni. Accolgono il Pontefice con applausi, lacrime e cori di “W il Papa!”. Nell’omelia l’invito a non stancarsi mai di chiedere perdono a Dio. Poi saluti, abbracci, scambi di regali e uova di Pasqua. Il Papa consola una donna che piange a dirotto e confida la sua sofferenza.https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2024-03/papa-rebibbia-femminile-giovedi-santo-lavanda-piedi-donne.html.

Piazza San Pietro e la Basilica, un giardino multicolore per la Pasqua.

. Le composizioni in arrivo da Sanremo e dall’Olanda decoreranno il sagrato. Le maestranze vaticane collaboreranno con gli esperti della Slovenia.

Perché Gesù è morto in croce?

Tra pochi giorni in tutto il modo cristiano e cattolico si celebrerà quello che è il cuore stesso della fede religiosa: la passione, la morte e la resurrezione di Gesù morto in croce.

Ma perché Gesù è morto in croce?

Bisogna innanzitutto considerare il quadro politico nel quale si trovava la Palestina ai tempi di Gesù.

La situazione politica della Palestina i tempi di Gesù

Forse in pochi sanno che la Terra di Israele nel 63 a.C. venne conquistata dall‘impero romano sotto la guida di Pompeo entrando così a far parte dei territori dell’impero romano sotto forma di colonia.

Nel 40 a.C. Erode ricevette dal senato romano la nomina a re della Giudea (morì il 4 a.C) e alla sua morte lasciò il regno ai suoi tre figli: Archelao, venne nominato re mentre gli altri due Antipa e Filippo ebbero il titolo di tetrarchi.

Ovviamente l’impero romano aveva degli uomini di fiducia dislocati per tutti la Giudea: si trattava di prefetti e procuratori i quali dovevano governare per conto dell’impero romano e ai quali spettava il potere civile, militare e giudiziario.

In realtà il potere giudiziario era tenuto dal Sinedrio – dal greco sinedeion“assemblea” – che era il sommo consiglio ebraico composto da 71 membri scelti tra i vari gruppi sociali: sadducei, scribi e anziani con a capo un’autorità suprema che era il sommo sacerdote.

Era il Sinedrio che regolava e legiferava sulla vita religiosa, giuridica ed economica degli ebrei. Il suo potere era così assoluto che aveva anche la facoltà di emettere sentenze di morte, che tuttavia dovevano essere sottoposte al consenso dei romani.

Perché veniva praticata la crocifissione

Ora, la pena di morte per eccellenza che veniva compiuta all’epoca dall’impero romano e quindi applicata in tutti i suoi territori, consisteva nella crocifissione.

La pena della crocifissione era così cruente, umiliante e terrificante che veniva praticata solo per i non cittadini romani principalmente per schiavi, stranieri e oppositori dell’impero romano ed era preceduta da una pratica ancora più cruenta quale quella della flagellazione.

Il nome di crocifissione deriva dallo “strumento” che si utilizzava per la tortura: una struttura a croce formata da due pali (uno orizzontale e l’altro verticale) che si intersecavano tra loro. Il palo verticale detto stipes, era di solito già piantato sul luogo dove avveniva il tremendo supplizio, mentre il condannato si recava sul luogo dell’esecuzione portando sulle sue spalle il parlo orizzontale chiamato in latino patibulum (patibolo) al quale sarebbe poi stato crocifisso.

Il patibulum aveva, a metà della sua lunghezza un foro con il quale veniva infisso sullo stipes. Inoltre il patibulum veniva legato alle braccia del condannato, di modo che se durante il tragitto fosse caduto la trave sopra di lui avrebbe anche potuto schiacciarlo.

Una volta giunto poi sul luogo della crocifissione, il condannato veniva issato sulla croce, il foro si incastrava sul palo verticale e per far sorreggere il corpo braccia e gambe venino inchiodati al legno, mentre sotto i piedi veniva posto un piccolo supporto per i piedi.

Le pene per il condannato non erano ancora finite dato che la morte non era immediata ma poteva sopraggiungere anche a distanza di qualche giorno. Quando finalmente giungeva la morte, era causata o per via di un collasso cardiocircolatorio (dovuto anche all’ipovolemia causata dalla perdita di sangue e di liquidi) o asfissia dovuta alla compressione del costato. Infatti, per respirare il condannato doveva fare leva sulle gambe; quando, per la stanchezza, o per il freddo, o per il dissanguamento, il condannato non riusciva più a reggersi sulle gambe, restava penzoloni sulle braccia, sopraggiungendo pertanto difficoltà respiratorie e quindi la morte.

Dal momento che gli esecutori di tale supplizio conoscevano bene come sopraggiungesse la morte, per accelerare il processo rompevano le gambe del condannato con un bastone, di modo che il soffocamento giungesse prima.

Perché Gesù venne crocifisso

Questa era quindi la situazione nella quale si trovava la Palestina quando Gesù di Nazareth iniziò a predicare l’avvento del regno di Dio e che Lui in quanto Figlio di Dio, era stato mandato in questo mondo per potare e fare conoscere il Padre al mondo.

Gli insegnamenti di Gesù basati su: povertà, umiltà, amore per il prossimo, conversione del cuore e uguaglianza tra le persone, se da un lato riscuotevano grande consenso tra le persone non solo umili e povere, ma anche tra quei ricchi che avevano spesso anche vessato la propria gente e volevano convertirsi; dall’altro invece avevano suscitato scalpore e timore di perdere il controllo sulla popolazione da parte di coloro che componevano il Sinedrio: sacerdoti, scribi, sadduccei e sommo sacerdote.

La parola di Gesù infatti non era “comoda” ma scomoda per tutte queste persone che avrebbero dovuto lasciare quindi la loro vita fatta di privilegi, agio e potere e abbassarsi al livello del popolo e diventare tutt’uno con loro.

Dato il crescente consenso tra il popolo del messaggio di Gesù che veniva accolto anche come Messia e Salvatore, i capi dei sacerdoti e gli scribi decisero che era giunto il momento di riprendere in mano le redini del potere sul popolo e decisero così che avrebbero fatto di tutto pur di eliminare Gesù.

Notizie circa gli avvenimenti relativi al modo in cui il Sinedrio riuscì a far catturare, processare e condurre a morte Gesù vengono dalla Bibbia e in particolare dai Vangeli.

Riportiamo pertanto la versione dell’evangelista Marco che descrive dettagliatamente gli ultimi istanti della vita di Gesù

Passione e resurrezione di Gesù secondo l’evangelista Marco (Mc 14, 1- 15, 48)

“Mancavano intanto due giorni alla Pasqua e agli Azzimi e i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di impadronirsi di lui con inganno, per ucciderlo. [2]Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non succeda un tumulto di popolo».

L’unzione a Betania

[3]Gesù si trovava a Betània nella casa di Simone il lebbroso. Mentre stava a mensa, giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l’unguento sul suo capo. [4]Ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro: «Perché tutto questo spreco di olio profumato? [5]Si poteva benissimo vendere quest’olio a più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei.

[6]Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona; [7]i poveri infatti li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre. [8]Essa ha fatto ciò ch’era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura. [9]In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto».

Il tradimento di Giuda

[10]Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai sommi sacerdoti, per consegnare loro Gesù. [11]Quelli all’udirlo si rallegrarono e promisero di dargli denaro. Ed egli cercava l’occasione opportuna per consegnarlo.

Preparativi del pasto pasquale

[12]Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?». [13]Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo [14]e là dove entrerà dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? [15]Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, gia pronta; là preparate per noi». [16]I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono per la Pasqua.

Annunzio del tradimento di Giuda

[17]Venuta la sera, egli giunse con i Dodici. [18]Ora, mentre erano a mensa e mangiavano, Gesù disse: «In verità vi dico, uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». [19]Allora cominciarono a rattristarsi e a dirgli uno dopo l’altro: «Sono forse io?». [20]Ed egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che intinge con me nel piatto. [21]Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui, ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo è tradito! Bene per quell’uomo se non fosse mai nato!».

Istituzione dell’Eucaristia

[22]Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». [23]Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. [24]E disse: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti. [25]In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio».

Predizione del rinnegamento di Pietro

[26]E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. [27]Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, poiché sta scritto:

Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse.

[28]Ma, dopo la mia risurrezione, vi precederò in Galilea». [29]Allora Pietro gli disse: «Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò». [30]Gesù gli disse: «In verità ti dico: proprio tu oggi, in questa stessa notte, prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte». [31]Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Se anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano anche tutti gli altri.

Al Getsemani

[32]Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». [33]Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. [34]Gesù disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». [35]Poi, andato un pò innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. [36]E diceva: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu». [37]Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? [38]Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole». [39]Allontanatosi di nuovo, pregava dicendo le medesime parole. [40]Ritornato li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano appesantiti, e non sapevano che cosa rispondergli.

[41]Venne la terza volta e disse loro: «Dormite ormai e riposatevi! Basta, è venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. [42]Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».

L’arresto di Gesù

[43]E subito, mentre ancora parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni mandata dai sommi sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. [44]Chi lo tradiva aveva dato loro questo segno: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta». [45]Allora gli si accostò dicendo: «Rabbì» e lo baciò. [46]Essi gli misero addosso le mani e lo arrestarono. [47]Uno dei presenti, estratta la spada, colpì il servo del sommo sacerdote e gli recise l’orecchio. [48]Allora Gesù disse loro: «Come contro un brigante, con spade e bastoni siete venuti a prendermi. [49]Ogni giorno ero in mezzo a voi a insegnare nel tempio, e non mi avete arrestato. Si adempiano dunque le Scritture!».

[50]Tutti allora, abbandonandolo, fuggirono. [51]Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. [52]Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo.

Gesù davanti al sinedrio

[53]Allora condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. [54]Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del sommo sacerdote; e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco. [55]Intanto i capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. [56]Molti infatti attestavano il falso contro di lui e così le loro testimonianze non erano concordi. [57]Ma alcuni si alzarono per testimoniare il falso contro di lui, dicendo: [58]«Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo». [59]Ma nemmeno su questo punto la loro testimonianza era concorde. [60]Allora il sommo sacerdote, levatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». [61]Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?». [62]Gesù rispose: «Io lo sono!

E vedrete il Figlio dell’uomo
seduto alla destra della Potenza
e venire con le nubi del cielo».

[63]Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? [64]Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte.

[65]Allora alcuni cominciarono a sputargli addosso, a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli: «Indovina». I servi intanto lo percuotevano.

Rinnegamenti di Pietro

[66]Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una serva del sommo sacerdote [67]e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo fissò e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù». [68]Ma egli negò: «Non so e non capisco quello che vuoi dire». Uscì quindi fuori del cortile e il gallo cantò. [69]E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è di quelli». [70]Ma egli negò di nuovo. Dopo un poco i presenti dissero di nuovo a Pietro: «Tu sei certo di quelli, perché sei Galileo». [71]Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quell’uomo che voi dite». [72]Per la seconda volta un gallo cantò. Allora Pietro si ricordò di quella parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai per tre volte». E scoppiò in pianto.

Gesù davanti a Pilato

[1]Al mattino i sommi sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo condussero e lo consegnarono a Pilato. [2]Allora Pilato prese a interrogarlo: «Sei tu il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». [3]I sommi sacerdoti frattanto gli muovevano molte accuse. [4]Pilato lo interrogò di nuovo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!». [5]Ma Gesù non rispose più nulla, sicché Pilato ne restò meravigliato.

[6]Per la festa egli era solito rilasciare un carcerato a loro richiesta. [7]Un tale chiamato Barabba si trovava in carcere insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio. [8]La folla, accorsa, cominciò a chiedere ciò che sempre egli le concedeva. [9]Allora Pilato rispose loro: «Volete che vi rilasci il re dei Giudei?». [10]Sapeva infatti che i sommi sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia. [11]Ma i sommi sacerdoti sobillarono la folla perché egli rilasciasse loro piuttosto Barabba. [12]Pilato replicò: «Che farò dunque di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». [13]Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». [14]Ma Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?». Allora essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!». [15]E Pilato, volendo dar soddisfazione alla moltitudine, rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.

La corona di spine

[16]Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la coorte. [17]Lo rivestirono di porpora e, dopo aver intrecciato una corona di spine, gliela misero sul capo. [18]Cominciarono poi a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». [19]E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano a lui. [20]Dopo averlo schernito, lo spogliarono della porpora e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.

La via della croce

[21]Allora costrinsero un tale che passava, un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e Rufo, a portare la croce. [22]Condussero dunque Gesù al luogo del Gòlgota, che significa luogo del cranio, [23]e gli offrirono vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese.

La crocifissione

[24]Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse quello che ciascuno dovesse prendere. [25]Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. [26]E l’iscrizione con il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei. [27]Con lui crocifissero anche due ladroni, uno alla sua destra e uno alla sinistra. [28].

Gesù in croce deriso e oltraggiato

[29]I passanti lo insultavano e, scuotendo il capo, esclamavano: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, [30]salva te stesso scendendo dalla croce!». [31]Ugualmente anche i sommi sacerdoti con gli scribi, facendosi beffe di lui, dicevano: «Ha salvato altri, non può salvare se stesso! [32]Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo». E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.

La morte di Gesù

[33]Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. [34]Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? [35]Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: «Ecco, chiama Elia!». [36]Uno corse a inzuppare di aceto una spugna e, postala su una canna, gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a toglierlo dalla croce». [37]Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.

[38]Il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto in basso.

[39]Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!».

Le pie donne sul Calvario

[40]C’erano anche alcune donne, che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di ioses, e Salome, [41]che lo seguivano e servivano quando era ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.

La sepoltura

[42]Sopraggiunta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, [43]Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anche lui il regno di Dio, andò coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesù. [44]Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, lo interrogò se fosse morto da tempo. [45]Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. [46]Egli allora, comprato un lenzuolo, lo calò giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare un masso contro l’entrata del sepolcro. [47]Intanto Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano ad osservare dove veniva deposto.”

Quindi, la morte di Gesù avvenne secondo la macabra esecuzione della crocifissione in quanto era la pratica che veniva adoperata all’epoca. Una pratica atroce e non priva di indicibili sofferenze al limite della sopportazione umana, è per questo motivo che in Occidente, all’inizio del IV secolo d. C., l’Imperatore Costantino il Grande vietò ai tribunali pubblici di condannare alla crocifissione.

Tuttavia questa pratica durò molto più a lungo in Oriente e in altri Paesi; non a caso vi sono racconti dettagliati di crocifissioni ancora nel IX secolo.

Il Papa: riconoscere e combattere le “bestie” che sbranano il cuore

Vizi, passioni disordinate, avidità di ricchezza e fama, protagonismo: all’Angelus in Piazza San Pietro, prima di iniziare gli esercizi spirituali per la Quaresima, Francesco mette in guardia da ciò che seduce e divora la libertà dell’uomo ed esorta i fedeli ad entrare nel deserto spirituale per far spazio alla voce di Dio e degli angeli. Forte l’appello per fermare le armi in Sudan, Mozambico, Ucraina e Medio Oriente.

Bestie selvatiche e angeli. Erano i “compagni” di Gesù durante i quaranta giorni nel deserto, descritti nel Vangelo odierno, e sono presenze dell’anima che accompagnano la vita di ogni uomo e che ancor di più si palesano nel deserto interiore, quello del cuore. Le prime – spiega Francesco dalla finestra dell’Angelus – vanno ammansite e combattute, i secondi ascoltati e seguiti.

Vizi e passioni che rischiano di sbranarci

Il Papa cala la Parola di questa prima Domenica di Quaresima nel vissuto di ciascuno e subito mette in guardia dalle tante “bestie” che dividono il cuore e tentano di possederlo, passioni disordinate che suggestionano, sembrano seducenti ma, se non stiamo attenti, rischiano di sbranarci.

Possiamo dare dei nomi a queste “bestie” dell’anima: i vari vizi, la bramosia della ricchezza, che imprigiona nel calcolo e nell’insoddisfazione, la vanità del piacere, che condanna all’inquietudine e alla solitudine, e ancora l’avidità della fama, che genera insicurezza e un continuo bisogno di conferme e di protagonismo. Sono come bestie “selvatiche” e come tali vanno ammansite e combattute: altrimenti ci divorano la libertà. E la Quaresima ci aiuta ad entrare nel deserto interiore per correggere queste cose.

Il servizio contro il possesso

Ma la Quaresima è anche il tempo propizio per ascoltare gli angeli, “messaggeri di Dio che ci aiutano e ci fanno del bene”. Essi richiamano “pensieri e sentimenti buoni suggeriti dallo Spirito Santo” perché la loro principale caratteristica è il “servizio”, ovvero l’esatto opposto del possesso, tipico delle passioni.

Mentre le tentazioni ci dilaniano, le buone ispirazioni divine ci unificano e ci fanno entrare nell’armonia: acquietano il cuore, infondono il gusto di Cristo, “il sapore del Cielo”. E per cogliere l’ispirazione di Dio e capire bene, ci vuole entrare nel silenzio, nella preghiera.

Mentre esorta i fedeli a comprendere quali bestie si agitano nel cuore, a dare loro un nome, così da evitare di finire sbranati da quelle stesse passioni, il Pontefice richiama ancora l’attenzione sugli strumenti giusti per far posto a Cristo e resistere alle tentazioni: preghiera e silenzio. Altro invito che Francesco rivolge a tutti: quello di non aver paura di entrare nel deserto, perché solo in ascolto del cuore, si comprende la verità.

L’appello per fermare le armi nelle zone di conflitto

Al termine della preghiera mariana, il pensiero di Francesco corre con forza ai Paesi che vivono il dramma della guerra: “Ovunque si combatte – afferma – le popolazioni sono stanche della guerra, ovunque si combatte la guerra è inutile e inconcludente”. Preoccupa il Papa in particolare il conflitto in Sudan, iniziato 10 mesi fa e la grave situazione umanitaria che il Paese si trova a fronteggiare; gli attacchi in Mozambico, poi la martoriata Ucraina e infine il Medio Oriente, dove secondo il nuovo report del Ministero della Sanità di Gaza il bilancio dei morti dal 7 ottobre scorso è salito a quasi 29mila, con 127 decessi nelle ultime 24 ore e circa 69mila feriti.  Tra i saluti ai fedeli in Piazza, il Successore di Pietro ne rivolge uno in particolare ai coltivatori e agli allevatori presenti, protagonisti in questi giorni di manifestazioni, cortei e proteste con la marcia dei trattori, per chiedere più garanzie e tutele del loro lavoro e adeguamenti della Politica agricola comune. 

Iniziano gli esercizi spirituali

Dal pomeriggio di oggi per il Papa e la Curia romana iniziano gli esercizi spirituali. Francesco nei giorni scorsi ha invitato i cardinali residenti a Roma, i Capi Dicastero ed i Superiori della Curia, a vivere in modo personale questo periodo “sospendendo l’attività lavorativa e raccogliendosi in preghiera fino a venerdì 23 febbraio 2024. In questa settimana saranno sospesi anche tutti gli impegni del Santo Padre, compresa l’Udienza generale di mercoledì 21 febbraio.

Non è bene che l’uomo sia solo. 32° Giornata mondiale del Malato

Domenica 11 febbraio si celebra la 32ª Giornata Mondiale del Malato,  sul tema: «Non è bene che l’uomo sia solo». Curare il malato curando le relazioni.

2024: LA XXXII GIORNATA MONDIALE DEL MALATO

«Non è bene che l’uomo sia solo – Curare il malato, curando le relazioni». È questo il titolo del Messaggio di papa Francesco per la XXXII Giornata Mondiale del Malato, che si celebra l’11 febbraio, nella memoria liturgica dell’Apparizione della Madonna di Lourdes. «Siamo creati per stare insieme, non da soli – scrive il Pontefice –. E proprio perché questo progetto di comunione è inscritto così a fondo nel cuore umano, l’esperienza dell’abbandono e della solitudine ci spaventa e ci risulta dolorosa e perfino disumana. Lo diventa ancora di più nel tempo della fragilità, dell’incertezza e dell’insicurezza, spesso causate dal sopraggiungere di una qualsiasi malattia seria». Il Santo Padre allarga la sua riflessione e guarda a due delle malattie più gravi che hanno colpito e continuano a colpire l’umanità intera: la pandemia da Covid-19, che ci ha fatto sperimentare la durezza della solitudine e dell’isolamento, e la guerra. Troppo spesso malattia, disabilità ed età che avanza alimentano la cultura dello scarto, mentre l’efficientismo rischia di trasformare la cura in prestazione. Mentre «la prima cura di cui abbiamo bisogno nella malattia – è la sottolineatura di papa Francesco – è la vicinanza piena di compassione e di tenerezza». Un bisogno di vicinanza e relazioni che investe tutti: i malati con i loro familiari, ma anche medici, infermieri, operatori socio-sanitari, troppo spesso lasciati nella solitudine di ritmi frenetici che fanno smarrire la centralità della persona. Ognuno, è la conclusione del Pontefice, nella dimensione della malattia è invece chiamato a essere «artigiano di vicinanza e di relazioni fraterne».

«Sentiamo la responsabilità – afferma Salvatore La Sala, diacono permanente, medico e responsabile della Pastorale diocesana per la Salute – di rendere più umane le cure, affinché rispettino il valore sacrale della vita in tutte le sue manifestazioni di sofferenza. Questa attenzione, nei confronti del Malato deve tradursi in un atteggiamento di consolazione, compassione, comprensione misericordiosa sia personale che comunitaria».

Ed è a questo tema che è dedicato il pomeriggio di approfondimento promosso proprio dalla Pastorale diocesana per la salute. Si intitola, infatti, “Il ministero della consolazione: prospettive alla luce del cammino sinodale della diocesi di Como” il pomeriggio di riflessione e confronto in occasione della Giornata Mondiale del Malato. Sabato 10 febbraio, dalle ore 15.30 alle ore 17.00, presso il Seminario di Como, in via Baserga 81, interverranno: don Marco Cairoli, docente di Sacra Scrittura; don Simone Piani, direttore dell’Ufficio liturgico diocesano; Massimo Soldarini, medico psicoterapeuta; Salvatore La Sala, diacono permanente, medico, responsabile diocesano della Pastorale della Salute.

L’incontro di sabato 10 febbraio è in presenza. È prevista la possibilità di partecipazione da remoto su piattaforma MS Teams. Questo il link: https://bit.ly/ministeroconsolazione2024

Papa Francesco: “Non dimentichiamo le guerre, preghiamo per la pace”. Papa Francesco ha dedicato l’udienza di oggi 7 febbraio al vizio della tristezza, “un verme del cuore”. Al termine, un ennesimo appello a non dimenticare le guerre che insanguinano il mondo e a pregare per la pace.

“Non dimentichiamo le guerre!”. È l’appello di Papa Francesco, al termine dell’udienza di oggi in Aula Paolo VI, durante i saluti ai fedeli di lingua italiana: “Non dimentichiamo la martoriata Ucraina, la Palestina, Israele, i Rohingya e le tante tante guerre che sono dappertutto”, l’elenco stilato an Francesco: “Preghiamo per la pace. La guerra sempre è una sconfitta, sempre! Preghiamo per la pace, ci vuole la pace”.

C’è una “tristezza amica”, che “ci porta alla salvezza”, e c’è una tristezza che è “una malattia dell’anima”, “un abbattimento dell’animo, un’afflizione costante che impedisce all’uomo di provare gioia per la propria esistenza”,

ha spiegato il Papa a proposito del “vizio un po’ bruttino”, come lo ha definito a braccio, al centro della catechesi. “Vi è una tristezza che conviene alla vita cristiana e che con la grazia di Dio si muta in gioia: questa, ovviamente, non va respinta e fa parte del cammino di conversione”, ha puntualizzato: “Ma vi è anche una seconda figura di tristezza che si insinua nell’anima e che la prostra in uno stato di abbattimento: è questo secondo genere di tristezza che deve essere combattuto”. Come esempio di “tristezza amica, che ci porta alla salvezza”, Francesco ha citato il figlio prodigo della parabola: “quando tocca il fondo della sua degenerazione prova grande amarezza, e questa lo spinge a rientrare in sé stesso e a decidere di tornare a casa di suo padre. È una grazia gemere sui propri peccati, ricordarsi dello stato di grazia da cui siamo decaduti, piangere perché abbiamo perduto la purezza in cui Dio ci ha sognati”.

“Ma c’è una seconda tristezza, che invece è una malattia dell’anima”,

il monito del Papa: “Nasce nel cuore dell’uomo quando svanisce un desiderio o una speranza. Qui possiamo fare riferimento al racconto dei discepoli di Emmaus. Quei due discepoli se ne vanno da Gerusalemme con il cuore deluso, e allo sconosciuto che a un certo punto li affianca confidano: ‘Noi speravamo che fosse lui – cioè Gesù – a liberare Israele’”.

“La tristezza è il piacere del non piacere”, ha sintetizzato Francesco: “è come prendere una caramella amara, senza zucchero, brutta, e succhiare quella caramella”, ha aggiunto a braccio.

Per il Papa, “la dinamica della tristezza è legata all’esperienza della perdita”: “Nel cuore dell’uomo nascono speranze che vengono a volte deluse. Può essere il desiderio di possedere una cosa che invece non si riesce ad ottenere; ma anche qualcosa di importante, come una perdita affettiva. Quando questo capita, è come se il cuore dell’uomo cadesse in un precipizio, e i sentimenti che prova sono scoraggiamento, debolezza di spirito, depressione, angoscia”. “Tutti attraversiamo prove che generano in noi tristezza, perché la vita ci fa concepire sogni che poi vanno in frantumi”, il riferimento alla vita quotidiana: “In questa situazione, qualcuno, dopo un tempo di turbamento, si affida alla speranza; ma altri si crogiolano nella malinconia, permettendo che essa incancrenisca il cuore”.

“Certi lutti protratti, dove una persona continua ad allargare il vuoto di chi non c’è più, non sono propri della vita nello Spirito”, il monito: “Certe amarezze rancorose, per cui una persona ha sempre in mente una rivendicazione che le fa assumere le vesti della vittima, non producono in noi una vita sana, e tanto meno cristiana. C’è qualcosa nel passato di tutti che dev’essere guarito”.

“La tristezza, da emozione naturale può trasformarsi in uno stato d’animo malvagio”, il grido d’allarme del Papa: “è un demone subdolo, quello della tristezza, i padri del deserto lo descrivevano come

“un verme del cuore, che erode e svuota chi l’ha ospitato”.

“Dobbiamo stare attenti a questa tristezza e pensare che Gesù ci porta la gioia della Resurrezione”, la conclusione ancora una volta fuori testo: “Ma cosa devo fare quando sono triste? Fermarti, vedere se è la tristezza buona o non buona, e reagire secondo la natura della tristezza. Non dimenticatevi che la tristezza può essere cosa molto brutta, che ci porta al pessimismo, a un egoismo che difficilmente guarisce”.

Francesco: la fraternità è il “lievito di pace” di cui hanno bisogno le nostre periferie.

Mostrare con rinnovata generosità il volto compassionevole di Dio a chi vive ai margini delle città, dove a volte si toccano con mano indifferenza e violenza, è il compito che Francesco affida ai giovani della “Fraternité Missionnair des Cités” di cui ha incontrato oggi una delegazione. A Betlemme, ricorda il Pontefice, è ai pastori per primi “che viene annunciato il Vangelo della salvezza”

Ricaricarsi spiritualmente presso le tombe di san Pietro e san Paolo per rivivere “lo slancio generoso e missionario della Chiesa dei primi tempi”. È il motivo del pellegrinaggio a Roma di una delegazione di giovani appartenenti alla Fraternité missionnaire des Cités. Papa Francesco li incontra oggi, 4 gennaio, in Vaticano e parla loro a braccio. Nel clima natalizio di questi giorni, nel testo consegnato, li invita a contemplare il presepe:

Vediamo un luogo semplice e povero, una periferia, una “banlieue” di quel tempo. I pastori che si recano alla culla sono degli emarginati con una cattiva reputazione. Eppure è a loro per primi che viene annunciato il Vangelo della salvezza. Sono poveri ma hanno il cuore disponibile. Questa è anche la vostra esperienza.

I “poveri” sono a portata di mano

Il Papa osserva che non occorre andare lontano per trovare le periferie esistenziali delle nostre società: sono nel proprio quartiere, all’angolo della strada, a volte condividono il nostro stesso pianerottolo. Ed è a loro che va annunciata la Buona Notizia:

Perciò, non abbiate paura di lasciare le vostre sicurezze per poter condividere la vita quotidiana dei vostri fratelli e sorelle. Anche tra loro, molti hanno il cuore disponibile e aspettano, senza saperlo, il lieto annuncio.

Portare la fraternità nelle periferie delle nostre città

L’invito di Francesco ai giovani della Fraternité missionnaire des Cités è di vivere la fraternità, “lievito di pace”, nelle periferie delle città testimoniando attraverso la propria presenza e i propri gesti la compassione di Dio verso quei fratelli in cui si nasconde la presenza di Gesù. Il Papa sottolinea:

So anche quanto la violenza, l’indifferenza e l’odio possano talvolta segnare i quartieri: oggi avete la missione coraggiosa e necessaria di portare la vicinanza, la compassione e la tenerezza di Dio a persone che spesso sono private di dignità e di amore. Cari fratelli e sorelle, grazie per quello che fate, andate avanti!

Il Papa ai sacerdoti: cuore e porte aperte a tutti, non siate impiegati del sacro.

Francesco riceve in udienza in Vaticano un centinaio di membri dell’Associazione Sacerdoti Ispanici negli Stati Uniti, dove è in preparazione un Congresso Eucaristico nazionale che avrà come patroni il beato Carlo Acutis e san Manuel Gonzáles. Il Pontefice esorta a dedicare più tempo alla preghiera, a evitare di essere arrampicatori ecclesiali, ad alleviare il dolore di chi soffre, ad agire contro le ingiustizie, a promuovere l’interculturalità

Antonella Palermo – Città del Vaticano

“La Chiesa è una casa dalle porte aperte”, così Papa Francesco nel discorso rivolto a un gruppo di sacerdoti ispanici negli Stati Uniti ricevuti in udienza oggi, 16 novembre, in Vaticano. Condendosi molte aggiunte a braccio, rispetto al testo preparato, usa molte immagini evocative per ribadire l’importanza di vivere in un costante spirito di servizio per la cura soprattutto dei più fragili. 

Una Chiesa “raffinata”, ma chiusa, non funziona

Mentre raccomanda di fare attenzione alla tentazione della “raffinatezza ecclesiastica” priva di apertura al popolo – “questo non va bene”, afferma – il Pontefice invita a guardare a Cristo, aldilà di ogni altro libro di riferimento. Con le parole di Santa Teresa di Gesù, precisa che è Lui il “libro vivente”, ed è dunque la persona di Gesù “il libro” a cui ispirarsi di continuo nell’apostolato. Quindi insiste sulla necessità di spendere tempo meditando le Scritture, soprattutto recuperando il senso dell’adorazione:

Dobbiamo trovare il Signore nel silenzio dell’adorazione. Se io domando ora – non lo chiederò per non far arrossire nessuno – ma se io domandassi ora quante ore di adorazione fate ogni settimana, sarebbe un buon test. Butto lì la domanda ma ognuno risponde dentro di sé. No, perché è troppa fatica, perché qui, perché là… Se tu non preghi, se tu non adori, la tua vita vale poco.

Le donne sotto la croce

Alcuni tra i santi “eccelsi” che si sono specializzati nel “leggere questo libro vivente”, in silenzio davanti al tabernacolo, sono il beato Carlo Acutis e san Manuel Gonzáles, le due figure che sono state scelte come patrone del Congresso eucaristico nazionale statunitense, in preparazione per l’anno prossimo. Proprio da una catechesi di san Manuel, Francesco prende spunto per la sua riflessione in risposta alle domande poste al Pontefice da questi preti circa il proprio apostolato contemporaneo. Il modello è quello delle donne presso la croce di Gesù: il Papa invita a immergersi nel loro stato d’animo.

La stessa impotenza, lo stesso desiderio di agire contro l’ingiustizia, che vissero le sante donne in quei momenti, possiamo provarli noi di fronte alla problematica degli immigranti, alla chiusura di certe autorità civili e religiose, alle sfide dell’interculturalità, alla complessità dell’annuncio, tante cose.

Il sacerdote non è un impiegato del sacro

Il Pontefice invita inoltre i sacerdoti a non “accomodarsi” in un lavoro “impiegatizio”, imprigionato in orari fissi. 

Per favore, prima la gente, poi l’orario, non diventate “impiegati” del sacro, che è il pericolo di questa cultura, rivedete la vostra dedizione alla gente, la vostra apertura del cuore.

Francesco esorta a non fermarsi dinanzi all’appartente ingenuità di certe espressioni dello stesso giovane Acutis che parlava di “autostrada per il cielo”, così come, tornando ancora al modello delle opere sociali e apostoliche di san Gonzáles, rassicura quanti sarebbero portati a spaventarsi. In fondo, afferma il Papa, bastano fedeltà e costanza e fiducia in quel Dio che completa l’opera dei suoi figli.

Il saluto di un sacerdote che riceve la benedizione del Papa

Il saluto di un sacerdote che riceve la benedizione del Papa

Umiltà pastorale, preghiera, accoglienza fraterna

Portare avanti l’opera pastorale senza riserve, senza risparmio, senza schemi preconfezionati: “Ciò che un prete può fare inizia oggi, con la preghiera semplice, la parola vicina, l’accoglienza fraterna e il lavoro perseverante”, cita ancora Gonzáles. E qui racconta di un prete che in un quartiere povero si barricava in casa per non essere importunato fuori dagli orari canonici. “Speriamo che seminiate molto – chiosa – e speriamo che non dobbiate prendere pasticche per dormire perché arrivate stanchissimi a sera”. E aggiunge:

Fratelli, non riponete la vostra fiducia solo nelle grandi idee, né in proposte pastorali ben delineate, mi fanno paura quando vengono con tutti quei programmi pastorali perché li realizzino altri e non io, no. Non cercate colpevoli. “Non ha funzionato perché è colpa sua, io non ho fatto nulla”. Cercate voi stessi nell’umiltà pastorale. Abbandonatevi al Signore che vi ha chiamati a donarvi, e vi chiede solo solamente fedeltà e costanza.

L’annuncio è gratis, non “sporcarlo” per scalare ai vertici delle gerarchie 

Ancora una immagine per dire ai preti di tenersi alla lontana dalla tentazione di fare l’arrampicatore sociale, ecclesiale: quella delle “unghie sporche”.

Non abbiate le unghie sporche, ma le unghie pulite, perché le unghie si sporcano quando il prete inizia a scalare. E scalatori per quell’incarico, per quella parrocchia, per quel canonicato, e allora la promozione umana supplisce alla gratitudine dell’annuncio. E se perdete questo, sarete poveri preti che hanno perso la speranza della loro vita. Recuperate sempre la chiamata di Gesù a servire, a disposizione degli altri. Non abbiate le unghie sporche per scalare, no. Perché poi quando uno arriva in alto, quello che si vede è abbastanza indecente, non lo voglio dire!